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TEATRO GIUSEPPE VERDI TRIESTE

Il Teatro Verdi nasce con il nome di Teatro Nuovo poi nel 1821 fu chiamato Teatro Grande, nel 1861, dopo la sua acquisizione da parte della Municipalità, divenne Teatro Comunale e, il 27 gennaio 1901, venne consacrato al nome di Verdi poche ore dopo la morte del grande compositore, con delibera della Deputazione Comunale. Sostituisce il Teatro “San Pietro” che per tutto il Settecento era stato il cuore della vita teatrale della città. Su un’area  prospiciente il mare,il fondo retrostante la Dogana Vecchia,tra il borgo Teresiano, centro commerciale ed economico e Piazza Unità, centro politico della città,  Giovanni Matteo Tommasini, rappresentante del Granducato di Toscana a Trieste, commissionò, tra il 1798 e il 1801, agli architetti Giannantonio Selva (lo stesso della “Fenice” di Venezia) e Matteo Pertsch, la costruzione del teatro. La struttura è simile a quella del “Teatro della Scala” edificato dall’architetto Giuseppe Piermarini, incluso anche il porticato proteso in avanti a richiamare il pubblico a teatro. Sulla facciata il porticato centrale, si presenta con arcate a tutto sesto ed è sovrastato da una fascia composta da semicolonne di ordine ionico e finestre.Le statue inserite in nicchie nella facciata principale raffigurano Plutone dio degli inferi con il cane Cerbero a sinistra e Marte dio della guerra a destra. Il gruppo scultoreo posto sulla sommità dell’edificio rappresenta Apollo affiancato dall’Arte Lirica(Talia, musa della commedia) e dall’Arte Tragica( Melpomene, musa della tragedia). Tra il 1882-84 Eugenio Geiringer realizzò la facciata posteriore e la capienza della sala venne portata dagli originari 1400 a 2000 posti.Nel 1889 l’illuminazione a gas fu sostituita da quella elettrica.

L’inaugurazione del Teatro,allora proprietà del conte Cassis Faraone, ricco commerciante del Cairo, avvenne il 21 aprile 1801 con la rappresentazione di Ginevra di Scozia di Simone Mayr e di Annibale in Capua di Antonio Salieri.Melodrammi, balli, drammi e commedie che ottenevano successo sulle scene italiane ed europee trovavano pronta accoglienza nel Teatro triestino affollato da un pubblico di appassionati e di intenditori. Nell’autunno del 1813 la flotta di sua Maestà britannica, in guerra contro Napoleone Bonaparte, durante l’assedio alle truppe francesi asserragliate nel castello di San Giusto, già sotto assedio da quelle austriache giunte via terra dal Carso, scambiò con il castello un nutrito fuoco di artiglieria durante il quale rimasero colpite, altre la chiesa di San Giusto e varie case, anche il teatro dove rimasero incastrate nel suo muro 5 palle di cannone francese da 32 libbre.

Rossini fu dato per la prima volta a Trieste con L’Italiana in Algeri (1816), Donizetti con L’Ajo nell’imbarazzo (1826) e Bellini con Il Pirata (1831). La prima opera di Verdi fu il Nabucco (11 gennaio 1843), cui seguirono tutte le altre, quasi sempre a poca distanza dalla prima assoluta; due opere, anzi furono appositamente composte da Verdi per il Teatro Nuovo: Il Corsaro (25 ottobre 1848) e Stiffelio. Grandi direttori d’orchestra hanno calcato il palco del teatro alcuni gloriosi, quali Mahler, Strauss e Toscanini.

Alla prima metà del XIX secolo risalgono gran parte delle decorazioni pittoriche interne attribuite a Giuseppe Bernardino Bison, Alessandro Sanquirico, Placido Fabris, Giuseppe Gatteri e Tranquillo Orsi. Le decorazioni interne tuttora visibili vennero invece eseguite da decoratori austriaci negli anni Ottanta dell’Ottocento.

Divenuto Fondazione di diritto privato nel 1999, è attualmente gestito dalla Fondazione Teatro Lirico Giuseppe Verdi di Trieste.

I “BAGNI” DI TRIESTE. IL BAGNO ALLA LANTERNA TRIESTE

All’inizio dell’800 a Trieste fare un bagno era considerata un’attività da incoraggiare per il benessere e la salute dei cittadini.

 A Trieste la “tociada” avveniva ancora prima della nascita degli stabilimenti balneari.Ragazzini di Città Vecchia e marinari all’inizio dell’800 solevano tuffarsi nelle acque del porto oppure nel Canal Grande tra una barca e l’altra rischiando di essere investiti da un veliero che trasportava le merci. “Chiunque verrà trovato a nuotare nudo fra un Lazzaretto e l’altro sarà immancabilmente arrestato e punito, ed in quanto a’ ragazzi, gastigati verranno anche con vergate”. La zona incriminata era lo spazio fra il Lazzaretto Vecchio, quello di San Carlo (che sorgeva proprio dove oggi si trova il Museo del Mare) e il Lazzaretto Nuovo di Maria Teresa nella zona di Roiano. Tratto da un “Avviso” che risale al 7 giugno 1809, firmato dal Cavalier Ignazio de Capuano, Preside del Magistrato. ”Luogo di pubblici bagni” quando compariva questa scritta su un palo si poteva fare il bagno.Sicuramente fuori dai lazzaretti e specialmente a Sant’Andrea dove i marinai potevano addestrarsi nel nuoto. Nei primi decenni dell’800 sorsero sullo specchio di mare di fronte alla città, ancorati a zattere, i “bagni galleggianti”, da qui probabilmente deriva il modo di dire dei triestini “andiamo al bagno”.

 Il 24 maggio 1823, di fronte a piazza Giuseppina (oggi piazza Venezia), fu aperto il primo stabilimento balneare cittadino il “Soglio di Nettuno”, raggiungibile in barca o su di una passerella. All’interno furono costruite vasche per fare bagni caldi e di acqua dolce, una caffetteria con rinfreschi, un acquario con flora e fauna del golfo e anche una sala per fumatori. Il 13 giugno 1832 il “Bagno” fu visitato dall’ Imperatore d’Austria Francesco I Il proprietario e l’inventore del bagno fu il commerciante Domenico d’ Angeli.

 Seguirono la costruzione di altri “Bagni” galleggianti come il “Bagno Maria”, ormeggiato presso il molo San Carlo (oggi molo Audace).Era uno stabilimento galleggiante, costruito in legno, lungo 50 metri per 26 e d’ estate veniva ormeggiato presso il molo San Carlo (oggi molo Audace). Aveva una capienza di duecento persone, riservato,pare, soprattutto ai clienti del lussuoso Hotel “De la Ville”, sulle rive. Era stato costruito al Cantiere San Rocco a Muggia e, qui, in inverno, ci tornava per la manutenzione. Costruito nel 1857, attivo fino al 1911, quando fu distrutto da una tempesta. Il “Bagno Boscaglia” con struttura in legno, ancorato in mare aperto, spesso smontato alla fine della stagione balneare oppure ancorato in Sacchetta d’ inverno. Un apposito vaporetto trasportava i bagnanti al “Boscaglia”.Dopo qualche anno dalla sua inaugurazione, cambiò proprietario e divenne il “Bagno Buchler” e nel 1898 fu ristrutturato completamente e modernizzato. Nel 1891 venne nominato “Galleggiante Nazionale”.Purtroppo il bagno andò completamente distrutto assieme agli altri bagni galleggianti, nella notte tra il 13 ed il 14 giugno del 1911 per un violentissimo fortunale che danneggiò gravemente in molti punti anche le rive, affondando barche e velieri e causando alcuni morti.

 Il “Bagno Fontana” fu costruito verso il 1899 e non era un “Bagno” galleggiante ma ben posizionato a terra nei pressi della Sacchetta. Lussuosamente servito dal tram a cavalli sembra che sia stato distrutto per la costruzione della stazione di Campo Marzio. Joyce cita il Bagno Fontana nella Rubrica di Trieste, in un passo intitolato “Giorgino”, dedicato al figlioletto neonato: «Lo tenevo in mare nei bagni di Fontana e …

 Alla fine dell’800 la scogliera lungo il molo Santa Teresa (oggi Fratelli Bandiera) era il luogo preferito dalla povera gente per prendere il sole sulle rocce chiamate cape” (come i merletti sugli abiti delle signore). Nei primo del 900 fu costruito il primo stabilimento balneare pubblico, l’inaugurazione sembra sia avvenuta nel 1903 anche se precedentemente esisteva già uno stabilimento balneare, il “Bagno Fortuna”.

 Alla fine dell’800 si avvertiva la mancanza di specifiche strutture permanenti che permettessero soprattutto ai cittadini più indigenti di usufruire dei benefici del bagno. Nel 1903 il Comune di Trieste costruì, nei pressi della scogliera lungo il molo Santa Teresa (oggi Fratelli Bandiera), il primo stabilimento balneare pubblico il “Bagno Alla Lanterna” il cui nome deriva dalla lanterna collocata sul molo nel 1832 come faro marittimo. Il molo, su cui si sviluppa lo stabilimento, poggia sui resti di un’antica struttura di derivazione romana che congiungeva la terra ferma con l’isolotto o Scoglio detto dello Zucco su cui poggiavano le fondamenta del Faro. Il “Bagno” fu poi denominato dai triestini “El Pedocin”, forse perché c’era tanta gente quante cozze (in dialetto “pedoci”) attaccate agli scogli, oppure perchè vi andavano a “spidocchiarsi” i militari o, infine, perchè la gente si

 portava da casa i chiodi “Ciodin” (piccolo chiodo) per appendere gli abiti. Fu costruito in legno con tanto di staccionata divisoria fra uomini e donne e le pene contro eventuali sconfinamenti fra le due zone erano molto severe.

 Negli anni ’30 le strutture in legno vennero sostituite col calcestruzzo e nacque così il famoso muro che divide ancora oggi a metà lo stabilimento estendendosi fin dentro il mare. “El Pedocin” rimane l’unico stabilimento balneare in Europa dove un muro separa rigorosamente la spiaggia in due aree, una riservata a donne e bambini al di sotto dei 12 anni e l’altra ai maschi, suscitando la curiosità di giornalisti e turisti provenienti da tutto il mondo.

MUSEO D’ANTICHITA’ J.J. WINCKELMANN TRIESTE

La storia del Museo inizia nel 1833 con l’inaugurazione del cenotafio di Johann Joachim Winckelmann, insigne studioso di storia antica e arte classica, considerato fondatore della moderna storia dell’arte e padre dell’archeologia, morto tragicamente a Trieste l’8 giugno del 1768. Il monumento a Winckelmann divenne il centro del futuro museo che nacque con lo scopo di favorire lo studio dell’arte e dell’archeologia.

La raccolta del materiale antico fu favorita dalla posizione geografica di Trieste e dalle relazioni commerciali-marittime con le terre classiche dall’Egitto fino alla Mesoamerica. Il Museo è ospitato dal 1925 in un edificio neoclassico di tre piani e conserva accanto ai materiali archeologici della preistoria e della protostoria locale, la collezione egizia, quelle dei vasi greci, Tarantina e Cipriota, e le sale dedicate alla civiltà romana e maya.

I reperti che documentano le usanze e i riti dei primi insediamenti umani sul territorio provengono, in particolare, dalle grotte del Carso, dai Castellieri del Carso triestino e istriano e dallo straordinario sito di Santa Lucia di Tolmino  sull’alto Isonzo in cui sono state trovate 7000 tombe a incinerazione databili tra il VIII e il IV secolo a.C.

La collezione Maya “Cesare Fabietti”  è formata principalmente da una serie di  figurine antropomorfe e zoomorfe realizzata in terracotta da una popolazione di cultura maya databile tra il 600 e 1000 d.C.
 I reperti romani derivano in gran numero da Aquileia, da Tergeste, dall’Istria e dalle zone degli stati confinanti. Tra questi è esposta un’importante serie di rilievi di sarcofagi attici che sono stati prodotti in Grecia tra la fine del II e il III sec. d.C., in particolare si notano due grandi frammenti di Amazzonomachia della fine del II sec. d.C.
e il frammento di un sarcofago attico con il mito di Ippolito.
Una grande esposizione è dedicata ai reperti provenienti dall’antico Egitto, circa un migliaio di pezzi giunti nell’Ottocento e nel primo Novecento. In particolare tra i reperti appartenenti all’epoca faraonica spicca per importanza il grande sarcofago in granito rosa dal peso di sei tonnellate del dignitario Suty-nakht, lo scriba reale preposto al Tesoro del Signore delle Due Terre, che proviene con tutta probabilità da Menfi e
il sarcofago in legno stuccato e dipinto del sacerdote Pa-sen-en-Hor, completo del secondo coperchio (l’involucro di cartonnage) e della mummia ancora intatta. Stele, pyramidion, fogli di papiro, vasi canopi, statuine raffiguranti le principali divinità, animali sacri, amuleti e un insieme di materiali greco-romani, copti e islamici completano il panorama sull’antica civiltà dei faraoni.
Un grande patrimonio del Museo è la straordinaria collezione dei vasi greci e
 in particolare il favoloso rhyton d’argento. Un vaso  configurato a testa di giovane cerbiatto con decorazione sul collo raffigurante una scena mitologica con Borea che rapisce Orizia. Il vaso è databile verso la fine del V secolo a.C. e, probabilmente, è stato lavorato in una bottega di argentiere nelle colonie greche sulla costa del Mar Nero.
L’Orto Lapidario, annesso al Museo, sorgeva intorno al monumento alla memoria di Johann Joachim Winckelmann e nella zona occupata dal cimitero cattolico di San Giusto. Aperto al pubblico nel 1843 custodisce epigrafi, monumenti e sculture di epoca romana. Il tempietto ospita il  cenotafio di Winckelmann ed espone una preziosa collezione di sculture greche appartenuta agli Arcadi Sonziaci.
Il Museo si affaccia sul Giardino del Capitano, così denominato per la sua pertinenza al Capitano cesareo, che reggeva la città in nome dell’Imperatore d’Austria e dimorava nel Castello di San Giusto. Qui sono conservate sculture, lapidi ed iscrizioni di epoca medioevale-moderna.

CIVICO ACQUARIO MARINO TRIESTE

Il Civico Acquario marino di Trieste è stato inaugurato nel 1933 nei locali di un lato dell’edificio che allora ospitava la Pescheria Centrale della città. L’edificio, che si affaccia sul mare, fu eretto nel 1913 su progetto dell’architetto Giorgio Polli e, attualmente, ospita il “Salone degli Incanti”, uno spazio dedicato ad esposizioni e incontri culturali. L’Acquario marino occupa il piano terra e il primo piano della parte che comprende la torre dell’orologio sulla quale si erge un campanile.

In realtà il campanile contiene un serbatoio di acqua prelevata direttamente dal mare e che, attraverso un potente sistema di pompaggio, viene spinta nella torre a circa 10 m.di altezza. Quando si è riempita la grande vasca di decantazione, l’acqua, per caduta, viene erogata al piano terra dove sono presenti una trentina di vasche. Il vantaggio di questo sistema consiste nella sostituzione continua dell’acqua lasciando integro il suo contenuto di plancton.

Le vasche sono di diverse dimensioni, le più grandi contengono ambienti dell’alto Adriatico, come l’allevamento di mitili, mentre, le più piccole, accolgono le specie tipiche del Mar Mediterraneo, tra cui astici, aragoste, orate, branzini, scorfani, dentici, murene, cefali e mormore. I vari gruppi di celenterati, anellidi, molluschi, echinodermi, crostacei e pesci  provengono prevalentemente dal Golfo di Trieste.

 Al piano terra, nella grande vasca ottagonale di circa 10.000 litri, sono ospitati piccoli squali e le razze.

 Il Vivarium occupa il primo piano dell’Acquario marino e contiene numerose specie di anfibi e rettili  Tra i terrari tradizionali è possibile osservare le tre specie di vipere del Nord Est italiano, mentre, nell’ampio terrario a sviluppo verticale, si possono ammirare grossi esemplari tropicali come iguana, pitoni e boa che, a rotazione, vengono ospitati nel Vivarium.
Durante i mesi invernali, per stimolare la riproduzione degli animali provenienti dalle zone temperate, viene consentito lo svolgimento di una sorta di letargo. Per creare le condizioni idonee allo sviluppo della specie e al mantenimento del corretto equilibrio fisiologico degli animali, nel periodo che va dal mese di novembre a febbraio,viene eliminata qualsiasi fonte di calore,diminuite le ore di luce e abbassata la temperatura nelle vasche.
 Nel Vivarium, in un grande recinto circondato da tradizionali terrari, è stato ricostruito l’ambiente degli stagni carsici dove si riproducono regolarmente gli ululoni, i rospi comuni e le rane verdi.
Si racconta che giovedì 5 febbraio 1953 salpa dalla stazione Marittima di Trieste la motonave Europa diretta  verso Città del Capo. Qui i marinai durante una sosta un pò annoiati per gioco hanno catturato un pinguino . Quando la nave è salpata da Città del Capo,  il pinguino è ancora a bordo. Al ritorno a Trieste, il 18 maggio, dall’Europa sbarca un clandestino particolare chiamato Marco dal nostromo della nave, Giovanni Barrera, il figlio che avrebbe voluto dare ad un figlio mai arrivato. Marco è stato accolto nell’Acquario marino e per 32 anni è stato il mito dei triestini adulti e piccini. 

LA “MULA DE TRIESTE”

220 centimetri d’altezza, un fisico slanciato e tornito, nuda coperta solo da un drappeggio velato controvento è la scultura la “Mula de Trieste” realizzata dall’artista triestino Nino Spagnoli nel 2005, posta sugli scogli presso lo squero del porticciolo del Cedas

L’opera raffigura una ragazza che si sta spogliando per immergersi nell’acqua. Si racconta che il nome dato alla statua è Giulia la ragazza a cui s’ispirò l’artista che aveva visto correre in viale XX Settembre …19 anni, gambe lunghe e spalle ben tornite…  Mula nel senso di ibrido, incrocio di più etnie, testimonianza dell’esistenza di più culture nella città di Trieste.La statua è un omaggio alla bellezza e al temperamento delle donne triestine. 

LUNGOMARE DI BARCOLA TRIESTE

La popolare “scoierà” su cui si affaccia la Pineta e la riviera fu costruita per iniziativa del Duca d’Aosta quand’era ospite del castello di Miramar.

Il Comune per consentire la balneazione, vietata sulla scogliera, aprì nel 1926 il bagno popolare CEDAS che, però, non riuscì a contenere la massa estiva dei bagnanti. Il Cedas era aperto su un’ampia distesa di mare e circondato su tre lati da un muro di cinta; la parte più alta di questo chiudeva la casa del custode e due terrazze dove si prendeva il sole. Era un bagno comunale, e non si pagava alcun ingresso; ma nel reparto femminile c’era un ampio spogliatoio, attigui alla casa del custode, al quale si poteva accedere con un assai modesto sovrapprezzo. Questo durò fino al 1966. Il 4 novembre di quell’anno, una violenta mareggiata spazzò via le strutture, meno quelle a mare.

Nel 1935 il comune commissionò la costruzione di due coppie di terrazze semicircolari, distribuite tra uomini e donne, al di sotto del livello stradale in modo da non impedire la visuale del golfo per coloro che transitavano sulla strada. Nel 1945  gli stabilimenti furono distrutti dai tedeschi e nel 1953 il Governo Militare Alleato ne finanziò la ricostruzione a cui si aggiunsero nel 1959 altre sette per un totale di dieci terrazze e due terrapieni, uno con spiaggia e uno senza. Il nome Bagno Topolino comparve nei documenti del comune per la prima volta nel 1959 e indicava le prime quattro terrazze.

L’origine del nome probabilmente stava nel fatto che il bagno era piccolo come un topolino in confronto agli altri stabilimenti dell’epoca presenti in città, infatti, era chiamato inizialmente solo Topolin e faceva coppia con Pedocin (alla Lanterna). Attualmente il nome è diventato i “Topolini”, forse per il fatto che i dieci terrazzamenti semicircolari accoppiati a due a due visti dall’alto ricordano la forma delle orecchie di Miky Mouse, il Topolino della Walt Disney Studios.

Gli stabilimenti hanno trasformato la riviera barcolana, sino al Miramàr, in uno spazio balneare pubblico e gratuito e ancora oggi il lungomare di Barcola è il luogo abituale dei triestini che vanno a prendere il sole e a fare il bagno in mare o a praticare attività sportive all’aperto.

 

MUSEO DELLA GUERRA PER LA PACE DIEGO DE HENRIQUEZ TRIESTE

Il museo De Henriquez rappresenta una delle maggiori attrazioni museali italiane nel settore . Il messaggio consegnato alla storia dal suo fondatore è una lettera H che riprende l’iniziale del cognome, ed è attraversata da una fascia di colori brillanti, che alludono alla bandiera della pace.  La collezione de Henriquez, dal 1983 proprietà del Comune, esposta all’interno del museo, è composta da:15.000 oggetti inventariati, di cui 2800 armi, 24.000 fotografie, 287 diari (38.000 pagine), 12.000 libri, 2600 tra manifesti e volantini, 500 stampe, 470 carte geografiche e topografiche, 30 fondi archivistici, 290 documenti musicali, 150 quadri, un fondo di pellicole (250 documenti cinematografici conservati all’Istituto Luce di Roma), e documenti relativi sia alla prima che alla seconda guerra mondiale oltre che alcuni pezzi unici e straordinari.

L’esposizione permanente dal titolo “1914-1918 Il Funerale della Pace” è dedicata alla storia del Primo conflitto mondiale e parte dal Carro funebre della ditta Zimolo di Trieste (inizi ‘900), dello stesso tipo di quelli che il 2 luglio 1914 trasportarono la salma dell’arciduca Francesco Ferdinando, nipote dell’imperatore Francesco Giuseppe I ed erede del trono degli Asburgo, e quella della moglie duchessa Sofia Chotek dalla Piazza Grande (ora Unità) alla Stazione meridionale di Trieste.

Larga parte dello spazio è attribuito alle grandi bocche da fuoco e ai mezzi ruotati relativi al periodo e corredati da testi esplicativi. Un percorso ricco di storia attraverso le sezioni dedicate alla Propaganda, alla Trincea, alla Guerra industriale, fino ad arrivare al comparti della disfatta di Caporetto, dove è illustrata una delle pagine più tristi della storia italiana, e del L’ultimo fronte  dove sono raccontate le fasi finali del conflitto. Un’interessante parentesi su “1914-1918 Trieste in guerra” delinea la storia e le sorti della città dal periodo immediatamente precedente alla conflagrazione fino alla fine della guerra.

Contiene la più grande collezione di armi piccole,medie e grandi d’Italia.

Diego de Henriquez nacque a Trieste il 20 febbraio 1909, fin da giovane si dedicò con passione al collezionismo di oggetti della natura più varia, ma l’inizio della grande collezione bellica cominciò nel 1941,quando richiamato alle armi fu autorizzato dai superiori a recuperare “preda bellica”. Iniziò ad allestire un Museo di guerra, contemporaneamente diede vita a un Giornale del XXV Settore, compilò una guida relativa allo stesso Settore e predispose un laboratorio fotografico. Dopo il 1945,essendo un abile diplomatico, riuscì con le autorità delle diverse truppe di occupazione nel territorio, ad ottenere altro materiale militare che incrementò la sua già ampia collezione.

IL SANTUARIO DI MONTEGRISA TRIESTE

“Il Santuario nazionale a Maria Madre e Regina è posto su un ciglione carsico a 330 metri sul livello del mare, sul monte Grisa, con una vista spettacolare della città e visibile da tutti i paesi che si affacciano sul golfo. Per le sue dimensioni e l’ubicazione il tempio viene considerato come l’edificio di culto più maestoso di Trieste.

“Se con la protezione della Madonna, Trieste sarà salva, farò ogni sforzo perché sia eretta una Chiesa in suo onore”. Il 30 aprile del 1945 l’arcivescovo di Trieste, Monsignor Antonio Santin, fece un voto alla Madonna per la salvezza della città minacciata di distruzione dagli eventi bellici. Nel 1948, finita la guerra, il mons. Strazzacappa, a conclusione di un programma proposto per riaccendere in tutta Italia la devozione alla Madonna facendo conoscere il messaggio di Fatima, propose di realizzare a Trieste un tempio di interesse nazionale dedicato alla Madonna. 10 anni dopo nel 1958 durante una riunione della Conferenza episcopale italiana tenutasi a Roma, venne preso in seria considerazione l’auspicio del Sommo Pontefice Pio XII che invitava i Vescovi italiani, come già in altre Nazioni era stato fatto, a consacrare l’Italia al Cuore Immacolato di Maria. Nel 1959 il Papa Giovanni XXIII decise che il Tempio a Trieste sarebbe stato dedicato a Maria Madre e Regina come simbolo di pace e unità tra tutti i popoli. Da aprile a settembre del 1959 ebbe luogo il cosiddetto “pellegrinaggio delle meraviglie” e la statua della Madonna di Fatima attraversò i 92 capoluoghi di provincia dell’Italia partendo dalla Sicilia e concludendosi a Trieste il 17 settembre 1959, quando il Monsignor Antonio Santin, prese in consegna la statua della Madonna di Fatima.

Il 19 settembre, sul Monte Grisa veniva finalmente posta la prima pietra del grande Tempio. Erano i tempi della “guerra fredda” ed il Santuario situato proprio ai confini dell’Europa comunista, sarebbe diventato così un simbolo e un’implorazione all’unione fra i popoli, in particolare fra l’Occidente e l’Oriente.Il 20 settembre la statua della Madonna fece ritorno alla Cappellina di Fatima e il Vescovo di Leiria, Monsignor Joao Pereira Venancio, sotto la cui giurisdizione si trova il Santuario di Fatima accolse il desiderio dei tanti pellegrini di avere una copia della statua della Madonna nel Tempio a Trieste e volle portarla personalmente dal Portogallo a Trieste. Arrivò a Trieste via mare e fu trasportata processionalmente nella Chiesa di San Giusto, vi rimase per quasi 6 anni, fino a costruzione ultimata del Santuario consacrato il 22 maggio del 1966.  Il Tempio Mariano di  Monte Grisa raccoglie la memoria di quattro eventi nazionali:il voto fatto dal mons. Santin per la salvezza di Trieste (30 apr. 1945), la consacrazione al Cuore Immacolato di Maria (13 sett. 1959),  il ricordo dei soldati caduti e dispersi (1945) ed il dramma dell’Esodo Giuliano-Dalmata.

 Il Santuario fu progettato dall’ing. Antonio Guacci, docente dell’università di Trieste, alla fine degli anni 50 su schizzo dell’arcivescovo di Trieste e Capodistria Antonio Santin. Il progettista si ispirò al “diamante solitario” incastonato sull’anello delle bellezze di Trieste, e il suo intento era attirare lo sguardo di tutti verso l’alto, sull’esempio della Vergine Maria a cui il Tempio è dedicato.


 Il modulo utilizzato per l’edificio in cemento armato è il triangolo isoscele, con la base uguale all’altezza, figura geometrica che si ripete in ogni suo elemento architettonico, ricco di molteplici significati simbolici. Il triangolo nel linguaggio simbolico biblico, rappresenta la trascendenza di Dio ed evoca la lettera M come simbolo della Vergine Maria.

  Due sono le chiese: inferiore e superiore. La chiesa inferiore, orientata da Nord a Sud, con la sua bassezza, simboleggia l’umanità nella sua dimensione creaturale e con gli intrecci dei fasci luminosi e le penombre dona all’interno un’aurea di mistero che invita alla riflessione ed al silenzio.

 Oltre all’altare principale, dedicato al Milite ignoto è costellata di altari e di una cappellina. La chiesa superiore, orientata da Est verso Ovest con la sua eminente altezza, simboleggia la trascendenza, la divinità. Le pareti a vetro conferiscono all’aula trasparenza e luminosità che la rendono in continuità con il cielo, il mare e la vegetazione circostante e il grande profilo triangolare della struttura con la punta verso l’interno, per formare il vano campane, disegna una grande “emme”(M) il monogramma di Maria

I triangoli di vetro che ricoprono la facciata sostenuti da costoni di cemento armato formano una lunga sequenza di lettere (A) ed (M) che rappresentano le iniziali del saluto angelico: “Ave Maria”.

 L’interno della chiesa superiore è modellato come un un favo d’api per le molteplicità degli elementi esagonali che rivestono le sue pareti tanto da farle assomigliare al reticolo delle celle, ricolme di miele, di un’arnia. Questa dimensione simbolica attualizza il carisma del Tempio che recita: ”da questo favo, il Tempio; l’ape madre e regina, la Madonna; vuole dispensare il suo miele, le sue celesti grazie a tutti coloro che vengono a pregarla”.

Gli altari laterali,di sagoma triangolare, formano la “emme” (M) di Maria e il modulo del triangolo compare anche nella croce sopra l’altare dell’Eucarestia, composta da una fitta trama di grossi cristalli colorati che formano i 5 lobi della croce, a significare le 5 piaghe di Gesù crocifisso.

Si racconta che all’alba del progetto del Tempio, mons. Antonio Santin ebbe un sogno premonitore: vide sopra uno sperone roccioso una nave con la prua rivolta verso il mare con le vele dispiegate al vento.La nave è simbolo della Chiesa, ma anche di Maria della quale ella è modello, aurora e madre: sempre pronta con le sue grazie ad accompagnarla maternamente al porto più sicuro. L’ing. Guacci non sembra aver disatteso la visione profetica del suo committente: la chiesa inferiore, infatti, assomiglia alla “stiva” di una nave.La chiesa superiore invece, assomiglia alla “coperta” di una nave, dove l’altare maggiore, indica il “ponte di comando”: il “nocchiero” Cristo unendola a Se con il suo spirito, la sospinge verso la gloria del Padre.L’altare della Madonna, invece, in fronte all’altare dell’Eucarestia ne suggerisce la “rotta” della nave: “fate quello che Egli vi dirà” (Gv. 2,5).

La facciata esterna dell’edificio mostra 3 grandi dimensioni architettoniche: la piramide ad indicare la trascendenza, la composizione dei triangoli ad indicarne la pluralità e la sua monolitica struttura ad indicarne l’unità. Nella composizione di questi 3 grandi simboli, il Tempio anche dall’esterno, annunzia un messaggio sempre attuale: “l’unità nella pluralità si raggiunge quando si guarda in alto, dove si scorge maggiormente ciò che unisce anziché ciò che divide”.

 Sulla strada difronte al cancello del Santuario è presente una Via Crucis con le quattordici stazioni, l’ultima delle quali si trova all’interno del perimetro del santuario. Immerso nel bosco di pini e con una vista stupenda sul mare, il santuario è meta per singoli e gruppi di pellegrini che cercano un luogo di preghiera tranquillo e rilassante.

BARCOLA TRIESTE

Barcola, posta a 14 metri s.l.m, è il primo nucleo abitato che s’incontra arrivando dalla costiera e il biglietto di visita della città di Trieste. Per la sua estensione in un avvallamento i romani la chiamarono Vallicula, poi il nome si contrasse in Valcula e per il suo clima mite diventò luogo di terme e ricche ville romane prima e rione delle ville patrizie triestine più tardi.

 L’ampiezza e la posizione al riparo del vento della riviera consentivano  facilmente l’attracco delle navi e, come ben descritto dagli storici Ireneo della Croce nel XVII secolo e Pietro Kandler nell’ottocento, tra Barcola e Miramare i romani costruirono un molo molto ampio, capace di ospitare non meno di 60 legni minori. Al posto dell’antico molo romano, attualmente, si apre il porticciolo del Cedas, con dimensioni più ridotte e dalla caratteristica forma ad U.

 Fino alla metà del XIX secolo Barcola era stata principalmente un insediamento di pescatori e nel 1826 contava 418 abitanti quando i triestini iniziarono a costruire le loro residenze estive nella frazione.
A monte del porticciolo del Cedas, nell’autunno del 1887, durante degli scavi per lo sviluppo edilizio della zona vennero alla luce dei resti architettonici di una grande villa marittima romana. A causa della speculazione edilizia molti dei reperti furono interrati per sempre mentre alcuni preziosi mosaici e una statua in marmo raffigurante un atleta furono conservati ed esposti nel lapidario Tergestino al Castello di San Giusto. La Villa si snodava lungo la riva del mare e si articolava in una zona di rappresentanza e in una residenziale, un’area giardino e in alcune strutture aperte sul mare che si collegavano ad ambienti termali e di servizio. Dal recupero e lo studio di alcuni frammenti di mattoni con il bollo di una grande famiglia dell’aristocrazia romana i “Crispini”, la Villa forse era appartenuta a Calvia Crispinilla, un personaggio dell’élite di potere a Roma, probabilmente un’imprenditrice che ostentava il lusso e il potere. Tutta la zona divenne più tardi proprietà della famiglia Conti e attualmente della famiglia Janesich. La villa fu cara soprattutto a Giusto Conti per la particolare salubrità ch’egli attribuiva al luogo, rimasto indenne dal contagio durante le epidemie di colera che infierirono a Trieste nel 1836, 1849 e 1855. Più a monte di Barcola esiste ancora la casa dominicale dei Burlo, l’edificio più antico di Barcola, con la loggia dagli archetti a tutto sesto in stile architettonico rinascimentale. Secondo lo storico Kandler, durante una o più estati del triennio 1448-1450, nella casa dei Burlo, fu ospite il vescovo di Trieste Enea Silvio Piccolomini divenuto papa nel 1458 col nome di Pio II.
All’interno della riviera si trova la casa dominicale  Giuliani al cui lato esiste tuttora un edificio di costruzione cilindrica, rastremata verso l’alto, a due piani più il pianoterra, coronata da balconata in legno e con copertura “a capanna” in tegole che presenta, sopra la porta d’entrata, un  piccolo stemma in marmo recante la data 1719 e le lettere F:L:D:M:C:. Alcuni pensarono che l’edificio fosse stato una torretta militare avente fini di difesa da nemici che venivano dal mare o da terra, altri che la torre fosse un posto di vedetta per la pesca del tonno e, infine l’ipotesi più probabile è che l’edificio fosse stato un granaio o un mulino.

Alle spalle della casa Giuliani esisteva la Villa dei conti Prandi dove il 2 settembre 1790 fu ospitato Ferdinando IV di Borbone, il re delle Due Sicilie, che in viaggio da Napoli a Vienna volle assistere “al divertimento della pesca in Barcola” dove si recò via mare. I possedimenti Prandi erano molto estesi e giungevano fino al mare. Giacomo Prandi (1740-1822) si dedicò al commercio del vino e aprì uno stabilimento per la lavorazione del pesce a Barcola, accumulando grandi ricchezze. Costruì la villa in via San Michele, nel centro storico della città, acquistò l’ex convento dei francescani a Grignano che per decenni fu la dimora estiva della famiglia e costruì una grande villa a Barcola che poi fu venduta nel 1914  alla “Fondazione barone Carlo e baronessa Cecilia di Rittmeyer” per un asilo di ciechi poveri in Trieste.

Alle spalle della chiesa esiste ancora la villa della contessa Regina Nugent. La casa con stile architettonico da castelletto porta inciso il nome della padrona sugli stipiti del portone d’accesso, mentre il cancello è sormontato da una corona comitale e dalla data di erezione 1881. Nel cimitero di Barcola è sepolto Lavai Nugent, conte di Westmeath, comandante dell’ordine di Maria Teresa, uno degli eroi dell’esercito austriaco dell’epoca napoleonica  e molto importante per la liberazione di queste terre dai francesi, infatti, nel 1813 firmò la convenzione di resa dei francesi asseragliatisi nel castello di San Giusto. Margherita Nugent, nipote di Regina, ha donato al Comune di Trieste il palazzetto Leo e la contigua ex chiesa di San Sebastiano nel centro storico di Trieste.

Dopo l’inaugurazione della linea ferroviaria Trieste-Vienna avvenuta nel luglio del 1857, venne costruito l’imponente viadotto ferroviario, che conta venti arcate, lungo 270 metri, con una massima altezza dal piano stradale di 21 m. del viale Miramare. Nell’ultimo decennio dell’ottocento furono costruite molte ville che trasformarono Barcola da villaggio agricolo e di pescatori in una stazione di soggiorno capace di attirare la nobiltà internazionale come la “Casa Mreule” in stile veneziano

e la “Casa Jakic” conosciuta come la Villa delle Cipolle che fu costruita nel 1896 da Anton Jakic, un ex prete di origine dalmata, anche se per alcune dicerie si crede che fosse una spia dello Zar. Venduta dal proprietario nel 1904, per un certo periodo divenne una famosa casa di appuntamenti e da gioco.

Il “Castelletto Cesare”, in stile neogotico, fu commissionato da Alessandro Cesare di Salvore nel 1890, dopo che la sua famiglia aveva ottenuto la concessione della spiaggia e dove,

successivamente, aveva costruito lo stabilimento balneare Excelsior e l’albergo omonimo attualmente trasformato in appartamenti privati. Nel giugno del 1904 venne inaugurata la sede della nuova “Società Canottieri Nettuno”. Barcola ha subito un cambiamento importante tra gli anni ’50 e ’60 con la costruzione del grande Barcola Tourist Hotel, destinato a residenza di lusso per gli ufficiali americani durante il Governo Militare Alleato, e con l’interramento, tra l’Istituto Rittmeyer e il lungomare, di un consistente tratto di mare su cui sorse, nel 1958, la Pineta di Barcola

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Opera di Duilio Cosma, all’epoca direttore delle Pubbliche piantagioni del Comune di Trieste e fondatore dell’Associazione italiana dei direttori di parchi e giardini, fu allora aspramente contestata dall’opinione pubblica e oggi è uno dei luoghi più amati dai triestini. La Pineta è un polmone verde affacciato sul golfo che tra pini marittimi e lecci conduce dal porticciolo omonimo fino al Parco e al Castello di Miramare.

 All’interno della Pineta nel 1963 fu costruita una grande fontana detta “luminosa” per gli spruzzi d’acqua di diversi colori.

La”Nuotatrice” è la statua in bronzo realizzata da Ugo Carà nel 1986 e collocata nei pressi della fontana di Barcola nella pineta prospicente al mare.

 

CIVICO MUSEO SVEVIANO

Italo Svevo pseudonimo dello scrittore Aron Hector Schmitz è ritenuto uno dei principali esponenti della cultura mitteleuropea.

Nasce a Trieste il 19 dicembre 1861 in una famiglia della borghesia ebraica. Nei suoi tre romanzi Una vita (1893), Senilità (1898), e La coscienza di Zeno (1923), sono espressi i tratti salienti della sua opera, derivati in modo stringente dalle esperienze personali come la scoperta della psicoanalisi freudiana e dal periodo culturale in cui egli visse.

Nel 1907 l’incontro e l’amicizia con il suo insegnate d’inglese lo scrittore irlandese James Joyce risvegliarono in lui la fiducia nelle sue capacità artistiche.  Quando i critici italiani nel 1923 ignorarono “La coscienza di Zeno”, Joyce, la cui pubblicazione nel 1922 di “Ulisse” lo aveva reso la voce della modernità, chiamò a raccolta i critici parigini perchè applaudissero Zeno. La fama e il riconoscimento del valore delle sue opere arrivarono gli ultimi anni della vita di Svevo, spezzata il 13 settembre del 1928 dalle conseguenze di un incidente stradale.

Il civico museo sveviano è stato inaugurato il 19 dicembre (la data del giorno in cui ricorre il compleanno di Svevo celebrata ogni anno al museo con una manifestazione) del 1997. Il museo nasce dalla decisione di Letizia Svevo Fonda Savio, figlia dello scrittore, di donare il prezioso patrimonio di oggetti e carte alla Biblioteca civica di Trieste, frequentata in gioventù dal padre, e presso la quale già esisteva una “saletta sveviana”. Purtroppo la maggior parte dei beni personali, appartenuti allo scrittore, e anche i manoscritti dei suoi tre romanzi sono stati distrutti durante il bombardamento aereo che colpì, il 20 febbraio 1945, la villa e la fabbrica dei Veneziani, la famiglia della moglie di Italo Svevo.

I pochi oggetti che sono pervenuti al museo, però, hanno avuto una grande importanza nella vita dello scrittore e, in particolare, il mobile-libreria  caratterizzato dal monogramma con le iniziali intrecciate inciso sulle ante; il violino su cui Svevo per molti anni si è esercitato e col quale si è esibito in un quartetto durante alcuni concerti privati e la penna d’oro che Livia, sua moglie, gli regalò in occasione del loro fidanzamento.